L'amico di Garrincha

Un allenatore venuto dal Brasile, una squadra di ragazzi da domare e una partita che decide la stagione. Un sorprendente gioiello di narrativa sportiva, ricco di suspense, passione e ironia.

Introduzione – Riscaldamento

Ogni giornalista sportivo, per capire davvero di calcio, dovrebbe fare l’allenatore.

Dopo una microcarriera da calciatore e quarant’anni da cronista e scrittore, ho deciso di prendere il famoso “patentino”. Un corso serio, con teoria (dalla tattica alla psicologia, dalla fisioterapia all’alimentazione) e pratica, affidata a preparatori autentici a farmi trottare come un ragazzino fra moduli, palleggi, acrobazie improbabili e strappi muscolari a ogni controllo di palla.

Alla fine l’esame, tosto, la gioia quasi studentesca della promozione, il sofferto tesserino e una squadra giovanile da allenare (antica come l’Inter), che non è più un’esercitazione ma una vera missione, rischiosa ed entusiasmante. Una sorta di volontariato a “tempo pieno” e a guadagno zero, ovviamente. Se per “guadagno” si intendono compensi economici.

Non solo ora capisco molto più di calcio, come da assioma iniziale, ma soprattutto conosco molto più di vita, nel bene e nel male. Quindi il guadagno diventa inestimabile.

Sorridevo incredulo quando il grande bomber Paolino Pulici – Puliciclone lo definì Gianni Brera per i quasi duecento gol in carriera e quel miracoloso scudetto granata del 1976 – che insegna calcio nelle giovanili di una squadra brianzola provocava: «I miei calciatori ideali? Quelli orfani».

Poi ho capito, quando ho cominciato a vedere certi genitori aggrappati alle reti di protezione istigare il proprio figlio a “picchiare duro” o a umiliarlo con un “sei scarso forte!” oppure scagliarsi contro l’arbitro come se avesse concesso un rigore inesistente nella finale di Champions o addirittura a insultare l’allenatore perché “il ragazzo deve giocare più avanti, bestia!”.

Scene di ordinaria tristezza.

Tra Federazione Calcio e CSI, c’è un universo sommerso di centinaia di migliaia di tecnici, dirigenti, arbitri, giocatori mossi da sola passione eppure spesso lo scenario è quello delle sfide estreme, da dentro o fuori.

E così il senso della lealtà e del confronto spesso va a farsi benedire. Ogni fine settimana dobbiamo affrontare il timore di scontrarci con il fanatismo dell’ignoranza e della rabbia, trasmessa come un codice genetico malato da padre (a volte anche da madre) a figlio.

Sono stato testimone, dalla mia panchina, della violenza messa in campo da una squadra avversaria, semplicemente infuriata per una sconfitta bruciante e aizzata da un bordocampo di genitori ultrà. Due degli avversari hanno cominciato a menare le mani e i piedi sui nostri giocatori. C’è voluta la forza di tutti per trattenere la loro furia. Per uno di loro è scattata una squalifica di 9 giornate “per aver rincorso un giocatore avversario – recita il referto ufficiale – e, una volta raggiunto, lo colpiva ripetutamente con calci alle gambe e manate in faccia… Trattenuto dai suoi compagni e dirigenti, riusciva a divincolarsi e rincorreva ancora una volta il giocatore avversario…”.

Da brividi, soprattutto se si considera che il contesto è una partita di calcio giovanile.

C’è, fortunatamente, il rovescio bello della medaglia: genitori, amici e parenti che cancellano ogni impegno pur di esserci, trasformando l’auto in una sorta di pulmino per trasportare la truppa nelle trasferte, o che si improvvisano dirigenti o magazzinieri, che tifano a squarciagola la squadra anche se il “ragazzo” resta inchiodato sulla panchina in attesa di un cenno del mister che a volte non arriva nemmeno.

Il nostro terreno di allenamento è in centro città. Si apre una porticina che sembra quella di un condominio e, per magia, si spalanca un mondo. Un campetto di calcio in erba sintetica, che ai nostri tempi ce lo sognavamo, con altri spazi ludici incastrati fra le case, un teatro perfino, un baretto e tutto intorno una miscela di umanità senza soluzione di genere, anagrafe ed etnia.

La magia è vedere un giovane migrante dall’Egitto, ospite di una casa famiglia, palleggiare e scherzare con il figlio di un industriale come se fosse il suo migliore amico. Spariscono per magia barriere, pregiudizi, retoriche: sei una squadra e basta.

Ricordo quando uno dei miei giocatori propose di fare una colletta per acquistare un paio di occhiali speciali da gioco per un compagno miope, la cui famiglia era in difficoltà economica. L’iniziativa venne accolta da tutti con entusiasmo e lui, felice e finalmente attrezzato, dimostrò una “visione” di gioco insospettabile.

E hai voglia a cercare di mettere in secondo piano il risultato, ché l’importante è la correttezza, il divertimento, la crescita: se non si vince si va nell’amarezza più cupa, ma anche in quei momenti – così come nei trionfi – il fatidico gioco di squadra regala una fratellanza commovente, che ripaga tutto, le ore, la fatica, la tensione.

Sentirsi chiamare «mister» – a volte anche, per errore, prof o addirittura pà – regala un sorriso nuovo. E se un giocatore che ha appena segnato il gol decisivo corre verso la panchina ad abbracciarmi viene restituito tutto con gli interessi.

Non è facile farsi ascoltare, apprezzare, o anche solo rispettare, quando hai di fronte venti ragazzi che già in famiglia non sempre trovano dialogo. Tanto più se alla fine di ogni partita, mi rimetto i panni di giornalista e invio a tutti una email con commento e pagelle, molto temute e, pare, apprezzate. Fortunatamente i giocatori non osano dare le pagelle al loro mister.

Questo breve racconto raccoglie fatti e sensazioni della mia esperienza personale, senza riferimenti precisi alla realtà ma proprio per questo sincero e trasversale. L’ho fatto leggere in anteprima a un paio dei miei giocatori. Lo hanno giudicato vero, divertente, coinvolgente. Ci si sono ritrovati. E lo hanno perfino letto tutto. Titolari.

Non corrispondono nomi, tempi e situazioni, ma questa è un po’ la mia storia. E di tutti gli amici di Garrincha.

Federico Pistone

Capitolo 1 – L’amico di Garrincha

«Sei sicuro? Sicuro sicuro?», chiesi a Giovanni.

Lui spinse indietro con le dita i lunghi capelli neri da Apache e rispose un sì senza dire niente. Rimasi per qualche secondo in un vuoto di pensieri. «Va bene, ti convoco, ma non so se faccio la cosa giusta. Dopo quello che è successo…», aggiunsi.

Vorrei raccontare subito quella partita, decisiva e drammatica, ma prima è buona educazione salutarvi e presentarmi. Il mio italiano è un po’ obliquo, la mia pelle non è né rosa né gialla, ma nemmeno nera, diciamo che è un caffelatte con poco caffè.

Sono nato in Brasile mezzo secolo fa, settimana più settimana meno. Se date un’occhiata alla cartina, ma dev’essere bella dettagliata, a nord di Rio de Janeiro oltre la Baia di Guanabara troverete Magé, una chiassosa e polverosa città di cinquantamila abitanti, 49.999 da quando l’ho abbandonata a vent’anni senza neanche troppa saudade, parola intraducibile che abbiamo inventato noi brasiliani per esprimere quel senso profondo di nostalgia.

Qualche ricordo in verità mi è rimasto, per carità. Per esempio i miei sette fratelli, due femmine e due maschi maggiori, e altri tre meninhos più piccoli, di cui spesso confondevo i nomi e i volti per eccesso di affollamento; rammento poi mio padre Rafael sempre ubriaco che ci ha lasciato a 37 anni per cirrosi, in poche parole aveva il fegato distrutto dal gran bere.

A tirare avanti la gremita famiglia era mamma, Adelaide: si dava da fare con una collezione di lavori che comprendeva tutte le voci di un’agenzia di collocamento, da donna delle pulizie a segretaria, da insegnante privata di portoghese a operaia nella fabbrica di pesce. A volte papà diceva che era anche, tradotto in linguaggio gentile, una donna di facili costumi, ma credo fosse solo un modo per fiaccarla al culmine delle loro quotidiane liti.

Un giorno il vicino di sotto perse la pazienza e pestò con la scopa per farli smettere. Non ottenendo risultati significativi, il tipo suonò alla porta. Andai io ad aprire, visto che i miei genitori erano troppo impegnati a “scambiarsi opinioni”. Quando vidi quell’uomo la mia vita cambiò.

Aveva un occhio dritto e l’altro che andava chissà dove, la testa piena di batuffoli grigiastri, che una volta dovevano essere capelli, incassata in quel corpo tozzo e sgraziato e con la gamba sinistra che puntava a terra perché la destra era più corta di almeno sei centimetri. Dal suo grugno usciva fiato di birra scadente mentre una sigaretta rollata alla meglio pendeva dalle labbra cadaveriche.

Riconobbi subito la più grande ala della storia del calcio, il numero 7 per eccellenza. No, non Cristiano Ronaldo (non era ancora nato) e nemmeno Ribery (era appena nato) né Best, né Jair, né Jairzinho, né Figo, né Raul, nemmeno Beckham. Era una leggenda, lui, la alegria do povo, l’allegria del popolo, detto Mané, il modesto, ma anche l’Angelo dalle gambe storte, e in Brasile era amato più di Pelé. Ancora niente? Va be’, ve lo dico. Garrincha.

Due titoli mondiali, 1958 e 1962, più di cento gol in carriera e centomila dribbling, la specialità della casa. Quando gli arrivava palla, e gli arrivava spesso perché i compagni del Botafogo – dove giocò per dodici anni, dal 1953 al 1965 con una scia di reti e prodezze – sapevano che con lui la chiudevano in cassaforte, cominciava a caracollare creando con il pallone appiccicato ai piedi un corpo unico, mostruoso e mitologico. Grazie allo strabismo e a quel dislivello tra una gamba e l’altra – provocato da una brutta malattia, la poliomielite – era impossibile stargli dietro.

Scartava tutti, difensori, portiere, a volte anche i compagni di squadra, arrivava sulla linea di porta e lì decideva se depositarla scialbamente nella rete oppure tornare indietro e ricominciare perché ci aveva preso gusto.

La follia che diventa calcio, la dimostrazione vivente che questo è l’unico sport democratico, ammette tutti, derelitti e ricchi sfondati, elfi e giganti, fuscelli e colossi, perfino storpi e orbi come lui.

E qualche volta li trasforma in leggende.

Insomma, “quella” leggenda storpia e orba, ubriaca e imbestialita, era lì davanti a me. Restai bloccato con un sorriso ebete a mezz’asta mentre lui sgranava un minaccioso rosario di improperi contro la mia vivace famiglia.

«Garrincha!», ripetevo a occhi spalancati mentre lui se ne tornava zoppino al piano di sotto scuotendo rassegnato la capoccia di peluche. Quando l’ultimo round tra mamma e papà si concluse con un pari e patta di botte e insulti, provai a raccontare a loro il mio incontro.

«Sapete chi è venuto a lamentarsi? Garrincha in persona!».

«Fedele, vai a studiare», rispose mamma.

«Anzi vai a lavorare», aggiunse come alternativa papà trovando finalmente uno sguardo d’intesa da lei dopo tanta rabbia.

Se non altro li avevo messi d’accordo, contro Fedele, che sarei io, alla nascita Ademir Cardoso Cunha.

Sapete che in Brasile tendiamo a esagerare un filo con nomi e cognomi. Abbiamo battesimi chilometrici e poi riassumiamo il tutto in un vezzeggiativo che non c’entra niente con l’originale ma che ha un perché per ciascuno e ti si appiccica addosso lungo tutta la vita. Come una targa che però decidi tu.

Mettiamo Pelé: negli anni Quaranta il piccolo Edson Arantes do Nascimento aveva un grande idolo, il portiere para-rigori Bilé, al secolo Moacir Barbosa Nascimento. Forte dello stesso cognome, Edson millantava una parentela di cui tutti dubitavano.

«Bilé è mio zio», diceva, ma lo pronunciava talmente svelto – noi brasiliani abbiamo una parlata supersonica – e talmente male che Bilé divenne Pilé poi Pelé, e così fu chiamato per sempre, prima dagli amici, poi dai parenti, infine dalla storia.

Manoel Francisco dos Santos è diventato Garrincha dal nome di un povero uccelletto che quello strampalato ragazzino amava catturare pur di non andare a scuola.

C’è un altro dos Santos piuttosto famoso, Ricardo Izecson dos Santos Leite, ventotto lettere riassunte in quattro, Kakà (storpiatura infantile di Ricardo), sì l’ex milanista che faceva invidia a tutti perché bello, bravo, intelligente, gentile, ricco, famoso, cosa manca?

Come sono diventato Fedele? Non ci crederete. Con tutti i fuoriclasse brasiliani a disposizione, ero rimasto affascinato da un difensore dell’Inter, Adriano Fedele.

Lo avevo visto in una foto su una rivista e poi dal vivo in una partita amichevole al Maracanà.

Mi piaceva la sua faccia da guerriero antico, quei capelli selvaggi e il portamento fiero, gli mancavano solo lo scudo e l’elmo.

Qualche mese dopo, era il febbraio del 1979 lo ricordo bene, arrivò la notizia che Adriano Fedele aveva commesso un intervento falloso ai limiti del codice penale, spaccando tibia e perone in un colpo solo al povero giocatore del Perugia Franco Vannini, guadagnandosi così l’appellativo di killer. Ormai ero Fedele, killer o non killer, e Fedele sono sempre rimasto con orgoglio.

Garrincha tornò il giorno dopo a suonare alla nostra porta.

Questa volta era sobrio, impacchettato in un gessato grigio e una candida camicia inamidata. Sfoggiava perfino una parvenza di sorriso su quella faccia da barboncino incattivito. Stava andando alla chiesa di São Miguel a sentire messa ma prima aveva deciso di passare a scusarsi per il suo comportamento.

Ad aprirgli questa volta era stata mia sorella Sofia. «C’è un tizio alla porta che cerca un ragazzino», annunciò svogliatamente alla truppa dei fratelli.

Ci presentammo in cinque, ma solo io sapevo chi fosse quell’uomo e mi feci avanti come un pellegrino davanti a una sacra icona.

«Come ti chiami, piccolo?», chiese Garrincha. Aveva una foto nella mano sinistra che lo ritraeva durante un palleggio. Con la destra frugava nel taschino in cerca di una biro.

«Fedele, mi chiamo Fedele».

«Strano nome», disse scarabocchiando la dedica sotto il pallone nella foto:

Para meu amigo Fedele, com carinho.

Garrincha.

Io, quella foto e quella dedica non ci siamo mai più separati. Eccola qui, anche in questo momento, quarant’anni dopo.

Mio padre morì il 19 gennaio 1983, Garrincha il giorno seguente, tutti e due devastati dalla cachaça, la micidiale acquavite diventata una droga senza scampo.

Non si erano mai conosciuti, Garrincha e papà, anche se abitavano uno sopra l’altro e avevano lo stesso brutto vizio. Con tutte le creature che avevano generato – Garrincha si lasciò dietro una genìa di 13 figli – se ne andarono da questo mondo in solitudine, legati a un lettino d’ospedale senza nessuno attorno.

Rafael, mio padre, uomo qualunque, almeno aveva vicino sua moglie Adelaide, e un figlio a turno, alla spicciolata.

Manoel Francisco dos Santos, per il mondo la leggenda Garrincha, morì da solo, con un’infermiera che attendeva impaziente di liberare il letto.

L’amico di Garrincha –  Tam Editore