A 82 anni, Tarcisio Burgnich, la Roccia, si è arreso a un ictus che lo aveva colpito tre settimane fa. A darne la notizia è stato Leo Picchi, figlio di un’altra leggenda della Grande Inter, Armando Picchi, a cinquant’ anni giusti dalla sua scomparsa, commemorata nella sua Livorno. Era stato proprio Picchi a concedere a Burgnich il soprannome di Roccia quando, durante Spal-Inter del 6 ottobre 1963, in un contrasto di gioco l’avversario ferrarese Novelli veniva sparato via a metri di distanza mentre il nerazzurro proseguiva indisturbato l’azione. Burgnich viene a ragione considerato il difensore più tenace e brillante degli anni Sessanta, ombra e incubo dei più pericolosi attaccanti. Soltanto Pelé, nella finale mondiale del 1970, era riuscito a batterlo con quel colpo di testa impossibile, anche se Burgnich preciserà: «Quello però non era umano». Per il resto Pelé non aveva toccato palla, come ricorda Roberto Boninsegna: «Era l’unico al mondo che poteva fermare il fuoriclasse brasiliano. Ricordavo poco tempo fa con Riva quanto si diceva da avversari: che pessima domenica quando gioca Tarcisio». «Il Tarcio era il mio difensore preferito anche quando mi marcava e mi menava in allenamento», ribadisce Sandro Mazzola: «In partita prendeva l’attaccante più forte e lo seguiva dappertutto, anche fuori dal campo se necessario». «È un colpo al cuore. Ci lascia colui che sembrava indistruttibile, simbolo di forza e potenza, uno che non aveva paura di niente», ha dichiarato Picchio De Sisti. «Resta il ricordo di un grandissimo difensore e una grande persona», fa eco Dino Zoff. Accanto ad altre leggende come Facchetti, Picchi, Suarez, Mazzola, Corso e Jair, Burgnich garantì alla squadra di Angelo Moratti e di Helenio Herrera di diventare la Grande Inter, con 476 presenze, 7 gol, e la conquista di 4 scudetti, 2 Coppe dei Campioni e 2 Intercontinentali, che si aggiungono al titolo precedente con la Juventus (1961), alla Coppa Italia con il Napoli nel 1976, senza contare il trionfo agli Europei del 1968. Burgnich avrebbe seguito con particolare attenzione e affetto gli imminenti campionati continentali, lui che da tecnico del Bologna aveva lanciato un ancora sedicenne Roberto Mancini nel settembre 1981, prima in Coppa Italia e poi in serie A (Bologna-Cagliari 1-1), battezzando la sua grande carriera di attaccante e poi di allenatore. Commovente il tweet del c.t. della Nazionale: «Ciao Mister, grazie per quel magico esordio a Bologna, te ne sarò sempre grato!». Da buon friulano – era nato a Ruda, provincia di Udine, il 25 aprile 1939 – Burgnich si è sempre distinto come uomo di calcio e uomo straordinariamente serio, umile, leale, taciturno, ma anche terribilmente determinato, lontano anni luce dai riflettori. Anche da allenatore la sua generosità lo ha fatto apprezzare in 13 squadre, dalla serie C del Livorno e della Salernitana, fino alla A con Como, Cremonese, chiudendo in B nel febbraio 2001 sulla panchina del Pescara. Oltre ai fasti della Grande Inter, il ricordo più nitido che resta di Burgnich è il gol del 2-2 in azzurro nei supplementari più famosi della storia con la Germania che permetterà all’Italia di Valcareggi di vincere poi 4-3 e di disputare la finale. L’Inter ricorda Burgnich come «un eroe azzurro e nerazzurro, gladiatore implacabile, tosto e sempre leale». «Ci lascia un grande campione d’Europa», ha detto il presidente della Figc Gabriele Gravina. Domani a Cagliari un minuto di raccoglimento prima di Italia-San Marino. Oggi i funerali, alle 14.30, alla Chiesa di San Giovanni Bosco nel quartiere Marco Polo di Viareggio. La maglia numero 5 della Nazionale è ora esposta al Museo del Calcio di Firenze di fronte a quella di Armando Picchi, le due rocce eterne.
Federico Pistone