Rio Ferdinand dai gol ai pugni

Vent’anni senza Faber. È così che lo aveva battezzato l’amico Paolo Villaggio — per l’eufonia con il nome e per quell’infantile passione per le matite della Faber-Castell—in una delle perverse notti genovesi che generarono capolavori come Via del Campo o La città vecchia. La voce sciamanica di Fabrizio De André, che secondo il musicista Gian Piero Reverberi valeva il 60% delle sue canzoni, il resto se lo dividevano testi e musiche, si è interrotta l’11 gennaio 1999 all’Istituto tumori di Milano. A nemmeno 59 anni aveva già lasciato un’eredità artistica inestimabile, diventata ecumenica quando nel 1984 pubblicò Creuza de ma, primo album etnico di sempre, «il più importante nella storia della world music» lo definì il geniale David Byrne. Scritto in genovese antico e parzialmente ricreato (certi passaggi fanno fatica a decifrarli perfino a Genova), il disco è un terremoto sullo spartito, nei testi, nell’arrangiamento, nelle atmosfere. Eppure quello che resta di De André sono soprattutto La canzone di Marinella, ballata scritta da adolescente e portata al successo annidopoda Mina («senza di lei sarei stato un pessimo avvocato»), Il gorilla, tradotta da uno dei capolavori di Georges Brassens, suo primo riferimento affiancato poi da Leonard Cohen e Bob Dylan, Il pescatore, trasformata nel celebre concerto con la Pfm, immane successo di pubblico che non ha mai del tutto convinto Fabrizio: «Erano canzoni con la gonna troppo corta, le gambe non sempre erano bellissime», La guerra di Piero, scippata a Liberovici e Italo Calvino e diventata inno antimilitarista e perfino sigla televisiva di documentari di guerra, e poi Bocca di rosa, dedicata a una prostituta realmente esistita (tale Liliana Tassio, morta nel 2010 a 88 anni a Sampierdarena) che lo faceva non per soldi ma «per passione». L’amore degli italiani per il loro più grande artista musicale — già quarant’anni fa De André si ritrovò con due 33 giri ai primi due posti della hit parade, e uno si intitolava Tutti morimmo a stento—si è rivelato nel febbraio 2018 dopo la proiezione televisiva del Principe Libero, regia di Luca Facchini, sceneggiato in due puntate che racconta proprio la storia di De André: un’audience da partita della Nazionale (6 milioni e mezzo con uno share del 26%) e una rabbia feroce quando la Rai, proprio sulla sigla finale con la voce originale di De André che canta Bocca di Rosa, si era permessa di «tagliare» per dare la linea alla pubblicità e poi a Vespa che intervistava Berlusconi. Sacrilegio. Sui social si scatenò una vera e propria rivoluzione che costrinse l’emittente di Statoa scuse ufficiali, quasi istituzionali.

Che cosa ha fatto amare così tanto questo artista meravigliosomaanche ispido e irriverente, generoso, anarchico, vizioso, che ha riempito di orgoglio e sofferenze le persone care, frequentatore confesso di personaggi poco raccomandabili (la «graziosa dagli occhi grandi color di foglia» di Via del Campo è in verità un trans: «Quando mi accorsi che era un maschio ormai era troppo tardi»), anticlericale, eppure applaudito dalla Chiesa, incantata dalla sua rilettura dei Vangeli apocrifi nell’album del 1970 La buona Novella, e da tutte le forze sociali e politiche di ogni colore? Il suo genio certo, la sua stupefacente voce di vellutoche scandisce testi di bellezza narrativa, la musica avvolgente e sempre più coraggiosa e sperimentale. Soprattutto la sua capacità di sorprendere, di essere sempre avanti con i tempi, di essere il primo della classe sempre pronto però a copiare e a prendere in prestito, a raccogliere l’insegnamento degli altri e restituirlo migliore. Come l’operazione dell’Antologia di Spoon River, raccolta poetica di Edgar Lee Masters, che De André nel 1971 tradusse in musica creando canzoni addirittura superiori all’originale, come testimoniò la stessa Fernanda Pivano, grande traghettatrice della cultura americana, amica stretta di Hemingway e di Kerouac, ma che si commuoveva soprattutto per lui.

Nel 1943 aveva tradotto ed esportato in Italia Spoon River ma quando, 28 anni dopo, ascoltò Non al denaro non all’amore né al cielo, confessò: «Fabrizio ha migliorato molto le poesie di Lee Masters». In una canzone, Un chimico, non c’è più il farmacista Trainor che dorme sulla collina ma un personaggio nuovo e tormentato, tutto di De André, con un incipit da Nobel per la letteratura: «Solo la morte mi ha portato in collina, un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria per bivacchi di fuochi che dicono fatui, che non lasciano cenere, non sciolgon la brina. Solo la morte mi ha portato in collina». La sua personale Spoon River è diventata il cimitero di Staglieno, Genova centro, dove riposa insieme alla madre (Luisa Armerio da facoltosa famiglia di viticoltori piemontesi), al fratello Mauro (cocco di famiglia, avvocato prestigioso di Raul Gardini che gli ha dedicato perfino un palazzetto a Ravenna), la prima moglie Enrica Puny Rignon (madre di Cristiano) e il padre Giuseppe, torinese nato povero, classico self made man in grado di diventare insegnante, imprenditore e vicesindaco di Genova: nonostante il rapporto conflittuale, fu il professor De André a versare gran parte del riscatto all’Anonima sarda per la liberazione del figlio e di Dori Ghezzi, rapiti dalla tenuta dell’Agnata il 27 agosto 1979 e rilasciati il 30 dicembre. Da quella esperienza infernale — Fabrizio e Dori perdonarono i sequestratori ma non i mandanti — nacque la struggente Hotel Supramonte, la centesima della discografia di De André (su 131 complessive). La canzone in verità era stata scritta l’anno precedente da Massimo Bubola con il titolo Hotel Miralago e parlava di un litigio fra amanti. De André gliela soffiò con la consueta maestria («dobbiamo incrociare i nostri ricordi come due pittori che lavorano alla stessa tela») e la trasformò in capolavoro. Ma tutta la vita artistica di De André è capolavoro, fino all’ultimo, le Anime salve del 1996, dove ha vergato il suo testamento in una domanda a cui ora può dare risposta: «Quale sarà la mano che illumina le stelle?».

Federico Pistone (Corriere della Sera)

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