Rio Ferdinand dai gol ai pugni

Spietato condottiero, incubo di due continenti. O sovrano tollerante, divinità, primo vero ecologista della storia. Buone tutte e due quando il soggetto del dilemma è Gengis Khan — o Cingghis Khaan per traslitterarlo alla mongola – il condottiero che conquistò e unì il più grande impero di sempre, dalla Cina ai confini orientali dell’Europa, nominato uomo del millennio dal Washington Post  davanti ai più accreditati Leonardo, Einstein, Gandhi, Galileo, Napoleone, Beethoven e Mozart. La motivazione ufficiale è da premio Nobel: «Ha permesso di collegare Oriente e Occidente consentendo la creazione della civiltà moderna». Sterminando i nemici che non accettavano il suo potere e la sua origine divina, verrebbe da aggiungere in caratteri più piccoli. «Dettagli» che la storia perdona quando in ballo c’è il futuro del mondo, la possibilità di creare un immenso corridoio, da Vienna a Pechino, dal Mediterraneo al Gobi, dove possono fluire liberamente pensieri, religioni, filosofie, ma anche mercati, spezie, gioielli, tessuti in quel sublime scenario medievale chiamato pax mongolica.

Da quel travolgente XIII secolo, il mondo non ha più vissuto un periodo tanto nobile, vivace, pacifico. Lui, Gengis Khan – il Signore degli Oceani, intesi come mare ma anche come steppa e deserto — ha lasciato un’eredità genetica (secondo una ricerca scientifica oggi una persona su 200 nel mondo discende da lui) ma anche di tolleranza, spiritualità e perfino di animalismo e ambientalismo ante litteram . Il suo rigoroso codice di leggi Ikh Zasag prevedeva perfino la pena di morte per chi sporcava un ruscello, anche solo per lavarsi. Perché i corsi d’acqua, ancora oggi, in Mongolia sono considerati entità sacre, come la terra e il cielo, quell’altissimo cielo mongolo Tengher popolato da divinità dove Gengis Khan ha un posto speciale, un trono dell’aldilà.

Quando nacque, Temujin — il nome di un fiero nemico ucciso in battaglia dal padre Yesukhei — stringeva nel pugno un grumo di sangue. Un segno, predisse lo sciamano annunciando la nascita — era il 1162 — di un grande uomo che avrebbe deciso il destino dei “pastori erranti dell’Asia” e quello del mondo intero. Un’infanzia devastata da sciagure forgia Temujin che si dimostra prima di tutto un raffinato stratega, riuscendo in poco tempo a riunire clan di litigiosi nomadi fino a farli diventare un esercito organizzato e motivato, con quell’arma in più che piegherà l’Occidente: il cavallo. Non i destrieri possenti degli eserciti europei e mediorientali, ma piccoli puledri straordinariamente veloci e resistenti, da dove gli acrobatici guerrieri mongoli riuscivano a scagliare grandinate di frecce senza interrompere la corsa.

Nominato Imperatore, Gengis Khan non si fermò più sbaragliando nemici su ogni fronte ed espandendo il dominio su mezzo mondo. La leggenda dice che la prima volta che scese da cavallo, per una caduta, morì. Era il 1227. Durante l’agonia chiese di essere portato e seppellito, con annessi tesori, cavalli,  mogli e generali, nella sua terra del Khentii, una regione della Mongolia settentrionale. Chiunque incrociasse il corteo veniva ucciso perché nessuno doveva conoscere il luogo della sepoltura. Ancora oggi il sepolcro è sconosciuto, nonostante i tentativi tecnologici, sviati abilmente dagli stessi mongoli che non tradirebbero mai il loro grande, divino, condottiero.

Federico Pistone (Corriere della Sera)

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