È rimasto l’ultimo Gufo, il cantamusico. Nino Patruno, 85 anni, jazzista di mole internazionale, calabrese di nascita, romano di residenza ma tanto milanese di vita e carriera, ha l’anima appiccicata fatalmente a quel gruppo dalla geometria creativa perfetta e irripetibile, i Gufi, che in pochi anni – dal 1965 al 1969 – hanno realizzato 14 stupefacenti album in bilico fra cabaret, teatro, operetta, folk, satira, revival, caffè concerto e jazz naturalmente. «È bastato che uno se ne andasse per mandare all’aria tutto. Eravamo così diversi, ognuno portava il proprio talento e insieme siamo diventati una creatura fantastica. Nessun leader, solo tanta professionalità e passione, concentrate in pochi anni meravigliosi vissuti insieme dalla mattina alla sera». Oggi Lino Patruno si consola con il jazz, prodigiosi i suoi assoli di chitarra e banjo, ma è profondamente amareggiato dagli eventi: «Ci mancava il Covid, che si è appena portato via anche il mio terzo “fratello”, Roberto Brivio: è un tempo maledetto per noi artisti costretti a restare fermi in casa o a morire». Detto da lui che mezzo secolo fa, con un anticipo tremendo per dirla alla De André, componeva la struggente Non maledire questo nostro tempo, vista dalla generazione che ha vissuto la guerra con la speranza che chi ruba vada in galera «anche se ruba in nome del Signore». «Pure io, che già avevo fondato jazz band e suonavo con i mostri sacri americani, mai più avrei pensato di fare cabaret. Ma fortunatamente il destino ha deciso per noi». Noi, un plurale che vale per quattro. E quel destino ha il nome e le gentili sembianze di Didi Martinaz, cantante della mala ed ex miss Lombardia, allora fidanzata di Patruno. «Io vivevo ancora con i miei genitori», racconta Lino, «e Didi mi chiama alle tre di notte, mezza ubriaca: domani ti faccio conoscere degli amici». Così avviene il primo incontro nel locale milanese Captain Kidd con Nanni Svampa, il cantastorie, già famoso per avere tradotto in milanese il repertorio di Georges Brassens e recuperato ballate della tradizione popolare meneghina. Ai due si aggiungono in pochi giorni Roberto Brivio, il cantamacabro, dalla solida formazione teatrale, autore di brani demenziali e lugubri come Bare, bare, Vampire twist o Torsoli, e infine Gianni Magni, il cantamimo, istrione e ballerino dalla fisicità e dall’estensione vocale impressionanti, capace di restituire tonalità femminili ma anche cavernosi canti di gola. «Il nostro primo provino», rammenta Patruno, «fu al Derby davanti al fondatore e musicista Enrico Intra: cantammo Il cimitero è meraviglioso, tanto per mettere in chiaro che non avremmo fatto sconti sul nostro coraggio creativo». Tutti vestiti di nero, bombetta e ombrello d’ordinanza, una voglia matta di cantare e dissacrare: nascono I Gufi e arriva immediata la querela per una ballata recuperata da Patruno dalla tradizione abruzzese, Sant’Antonio allu desertu, che resiste paziente alle tentazioni e agli scherzi del demonio fino a non poterne più mettendolo «col culo a mollo». «Questa cosa non piacque alla moglie di un commissario di polizia di Chianciano che bloccò il brano per un anno», ricorda Patruno. Quando finalmente la canzone venne eseguita, all’inizio del concerto Nanni Svampa annunciò: «Se c’è fra il pubblico qualche altro pirla che vuole denunciarci, lasci pure perdere perché il Pubblico Ministero chiese l’assoluzione con formula piena, pace e bene». «Passavamo le giornate sempre insieme», ricorda Patruno con un sorriso di sincera nostalgia, «ci divertivamo, litigavamo, lavoravamo con un entusiasmo maniacale. Mi mancano tutti. È stata una stagione irripetibile, spazzata via dalle nuove tendenze della musica facile, prima il rock, oggi quella ridicola messinscena del rap. Non è arte, è porcheria, dai. L’altro giorno ho visto quello lì che ha il nome dell’armatore… Achille Lauro, vestito in calzamaglia e si vedeva tutto. Anche noi avevamo i nostri costumi da scena provocatori, ma quello era teatro e poi parliamo di mezzo secolo fa, eravamo avanti». La magia dei Gufi comprende un patrimonio sterminato di ballate della tradizione milanese (come La balilla, Porta Romana, Pellegrin che vien da Roma), nobilitate da quattro voci magnifiche e complementari accompagnate da quel polistrumentista di Patruno prestato al folclore. «Ho fatto io da maestro agli altri Gufi, musicalmente parlando, ma loro erano eccezionali per altri aspetti artistici, uno diverso dall’altro». Accanto a brani di irresistibile ironia, c’è anche un recupero di canti anarchici, culminati con l’album Due secoli di resistenza, e del repertorio della mala, su tutti La povera Rosetta, struggente storia di una prostituta che «battea la Colonnetta» di San Lorenzo, uccisa dalla «mano nera» della mafia. E Patruno accenna: «Dormi, Rosetta, dormi, giù nella fredda terra, a chi ti ha pugnalato noi gli farem la guerra». I Gufi diventano presto un fenomeno che oltrepassa i confini artistici del cabaret e quelli geografici della Lombardia. Il grande jazzista Giorgio Gaslini collabora con loro e recupera perfino un canto del Seicento veneto, L’avvelenato, che ritrova nell’interpretazione dei quattro tutto il suo dolente splendore. Creazioni di due giganti come Enzo Jannacci e Ivan Della Mea irrompono nel repertorio del gruppo e, nonostante la barriera del dialetto, entrano nella storia della musica italiana: molti protagonisti della canzone d’autore, dal genovese De André all’emiliano Guccini passando per il romano De Gregori, ammettono di essere debitori di questa band milanese: «Un giorno», rivela Patruno, «all’aeroporto vedo Francesco De Gregori che viene verso di me e mi abbraccia, dicendo: “Ma lo sai che voi siete stati la mia ispirazione?” Che bello». I Gufi ci trascinano nella nebbia milanese attraverso la vita, accartocciata dentro una città opulenta quanto indifferente, del «desperà», quello che non è capace di stare al mondo; o in quella dello scaricatore del «Navili», costretto a un lavoro infame, unica eredità per il figlio Giuan («la mia speranza giamò finida, giamò brusada»), o la ballata animalista per l’uccisione di El me gatt, con vendetta violenta nei confronti della Nineta, la killer «con la gamba sifulina e il nas sviser e gros» che porta il protagonista alla reclusione in riformatorio e all’amara conclusione: «L’è la giustisia che me fa tort, Nineta è viva ma el gatt l’è mort». Come per le grandi band, l’alambicco distilla magie solo nell’equilibrio di dosi e ingredienti: e quando un John Lennon o un Peter Gabriel se ne vanno è la fine dei Beatles e dei Genesis. Per i Gufi è Gianni Magni che di punto in bianco—è la fine degli anni Sessanta—decide di tornare alle origini teatrali lasciando i Gufi volare da soli ed estinguersi, salvo i vani tentativi successivi di ritrovare l’armonia perduta. Magni se ne andrà definitivamente nel luglio 1992, a 51 anni. Lo seguiranno Nanni Svampa nell’agosto 2017, senza compiere gli ottant’anni («con lui eravamo i due impegnati politicamente del gruppo», ammette il cantamusico), e lo scorso 22 gennaio Brivio. «La tv non ha avuto nemmeno una parola per lui», si lamenta Patruno: «Solo Enzo Iacchetti a Striscia la notizia lo ha ricordato. Il resto: che pena». Patruno sta preparando il suo terzo libro, Amapola, dove racconta l’incontro con «veri artisti» come Arturo Benedetti Michelangeli, Alberto Sordi, Monica Vitti, Wanda Osiris, Vittorio Gassman, Joe Venuti e, naturalmente, i Gufi, suoi compagni di volo per sempre.
Federico Pistone (Corriere della Sera)