Rio Ferdinand dai gol ai pugni

Pasquale Panella, il genio della parola in musica
«La canzone d’autore? È cantautoraglio
I rapper? Fingono aggressività, ma sono fragili»

È l’intruso sublime e screanzato della musica italiana, lui Pasquale Panella poeta che odia la poesia ma si diverte a inventare i nomi dei negozi, paroliere che odia la canzone ma che ha tirato fuori Battisti dalle “discese ardite e le risalite” (“Mogol era più bravo di me, perché io non scrivo canzoni”) trainandolo nello stupore degli ultimi cinque album bianchi dal candore delle copertine minimaliste, a cominciare già dall’incipit heideggeriano delle Cose che pensano del 1986: “In nessun luogo andai, per niente ti pensai e nulla ti mandai per mio ricordo. Sul bordo m’affacciai d’abissi belli assai. Su un dolce tedio a sdraio, amore t’ignorai invece costeggiai i lungomai”.
Un genio della parola, dal doppio senso, dal nonsenso, dal labirinto di significati che conducono ovunque e da nessuna parte, prestato alla canzone: «Non ho niente a che fare, ma ho portato la scrittura nella musica leggera. È lei che mi cerca». È colpa sua anche il trottolino amoroso che ha inchiodato Amedeo Minghi, uno dei più grandi melodisti italiani («un maestro compositore»), a una reputazione frivola quando al contrario siamo di fronte a una riduzione dotta, beffarda e incompresa del Narcisetto delle Nozze di Figaro “Non più andrai farfallone amoroso”, lo stesso che torna in Serenata, un altro incanto della strana coppia Minghi-Panella, dove il “parlo d’amor con me” è il richiamo all’aria Non so più cosa son, cosa faccio.

Non è nemmeno trentenne, e ha già un solido catalogo lirico e teatrale, quando nel 1979 Panella affida al semisconosciuto Enzo Carella il testo di una canzone che è l’antitesi della sanremesità e anche un po’ della decenza: «Toccami con l’alito, fammi un caldo in più, dolce tu per tu, rubami, con le trecce allacciami, c’è più smania in noi che dall’onda in poi». Il brano, Barbara, conquista il secondo posto a Sanremo per la sorpresa dello stesso autore che semplicemente rende cantabile il suo stile così intenso e fisico già espresso in altri componimenti come Poema bianco, colore che torna a segnare una ludica inesorabile catarsi: “Ho mentito che t’amavo / Capiscimi / Avrei voluto versarmi / sul tuo viso, sul tuo petto / come crema umana / invece la mia voce parlava / Avrei voluto tu fossi / fango, una melma nella quale affondare”.

Molti artisti – Mina, Cocciante, Zucchero, Branduardi, Mango, senza contare Battisti e Minghi –hanno voluto e amato le sue parole surreali, rivoluzionarie perfino.

Non c’è niente di rivoluzionario nella canzone. È solo conservatorismo, una continua restaurazione. Le canzoni mi annoiano in modo profondissimo.

Ma negli anni sessanta e settanta i cantautori hanno interpretato meglio di altre arti le urgenze della società e dell’anima. Pensiamo al Cielo in una stanza o alla Locomotiva.

È solo cantautoraglio. Non è questione di arte, ma di arto. Fai plin plin con il dito sul pianoforte o sulla chitarra, metti tre parole e nasce una canzone. Portandosi dietro tutta l’arroganza dei suoi autori.

Ma anche quando parliamo di geni senza confini come Brassens o Dylan?

Ma noi abbiamo avuto Pascoli, che bisogno c’è di altre parole, per di più straniere?

E quando si parla di mostri sacri come De André, De Gregori, Guccini…

Potrei fare il Mollica e dire che sono tutti bravissimi, senza distinzione. Ma non riesco ad ascoltarli, mi abbatto di noia.

Venditti?
Lui non lo si deve toccare perché ha scritto Grazie Roma.

Solo per quello?

Non è “solo”, è tanto.

E il suo Battisti, il genio Battisti?

È uguale agli altri, metti insieme due testi ed ecco le canzoni.

E l’atmosfera, l’arrangiamento, lo spartito?

Un minuto di Prokofiev, e non dico Stravinski o Stockhausen, ma uno di facile ascolto come Prokofiev, annulla tutta la musica a venire. La forma canzone è l’unica a permettersi il lusso di non progredire mai.

È vero che nel primo album bianco, Don Giovanni, ha dovuto compilare le parole sullo spartito di Lucio, poi però ha deciso di fare il contrario. Troppo difficile?

No, troppo lungo. All’inizio lui mi dava il nastrino con le parole in finto inglese che io dovevo sostituire. Per non stare ad aspettare, gli dissi: ti scrivo io il testo e tu poi metti la musica.
Ma lui capiva il senso dei suoi testi, tipo “Madre pennuta, il mio morbidìo…”?
Certo, forse perché senso non c’era e comunque è patetico cercarne, o cercarne uno solo.

Ma cosa le hanno fatto di male le canzoni?

A me niente, mi diverte scrivere i testi, mi rende allegro. Nel 1983 misi insieme la canzone Le soleil e il direttore della casa discografica mi chiese a chi volevo farla cantare. Visto l’argomento proposi Edoardo Vianello che negli anni Sessanta era diventato famoso per il genere balneare. E così fu costretto a cantare versi tipo: “Successe al mare dove l’aria è specialmente salsoiodica, dove l’ombra ha una pronuncia un po’ episodica, dove l’onda sguizza e sguazza in un’armonica”.

Ma ci saranno canzoni, di altri, che le sono piaciute.

Certo, alcune di Orietta Berti nella loro semplice plasticità, oppure Insieme a te non ci sto più

Però questa è farina di Paolo Conte, un cantautore, uno dei più straordinari.

È un autore muffito, bravo però. Ce n’è uno però che li batte tutti, per la capacità di scrivere musica sulle parole.

Finalmente, chi è questo fuoriclasse?

Marco Armani.

Quello di Tu dimmi un cuore ce l’hai del Sanremo 1985. Poi è un po’ sparito, o no?

Perché non ha avuto l’arroganza dei colleghi. Insieme nel 1997 abbiamo fatto l’album 13. Ascoltate Le notti di Casanova
«I sensi sparsi al vento, le parrucche trattenute a stento…», ascoltata. Ma non si ritrova più nella poesia-canzone di Piero Ciampi, nessuno scrupolo, nessuno sconto per chi ascolta, tipo “La tua assenza è un assedio ma ti chiedo una tregua prima dell’attacco finale”?
Ma no. Ciampi l’ho conosciuto da giovane, quando facevo teatro nelle grotte romane del rione Monti. C’erano i pischelli che aspettavano di scatenarsi a ballare e invece nel buio apparivo io a declamare il libro Cuore di De Amicis, ma in stile sadomasochiano, enfatizzando i passaggi più arditi. All’inizio i giovani erano disorientati ma poi appena arrivavano chiedevano: Che, ce lo fai Cuore? Un giorno arriva anche questo signore molto serio, un attore, mi dissero dopo che era Piero Ciampi e che faceva il cantautore.

Ma chi è il miglior paroliere italiano?

Non c’è dubbio, Franco Migliacci, uno che compone le parole esatte, che nascono con la musica. Dà sempre l’impressione di scrivere in tempo reale.

Non per niente sono sue le parole di Nel blu dipinto di blu, la canzone più importante in Italia?

Di importante c’è solo il verso di una canzone, ovviamente napoletana, che si porta via tutto. Basterebbe quello, il resto diventa insopportabile. Siamo nel 1917, Libero Bovio, Reginella: «Distrattamente pienze a me». C’è tutto, c’è il meglio.
Un secolo dopo ci ritroviamo il rap, o il trap. Uno di loro, Ernia, ammette che non c’è anima, che è tutto estetica e virtuosismo.

Come tutta la cosiddetta canzone d’autore, è circense, vive di acrobazie e funambolismi senza saperli fare, finisce per rimbalzare nella rete o a sfracellarsi a terra. Ogni tanto mi capita di sentire i rapper: vedo in loro un estremo vittimismo, un’enorme fragilità. Ostentano un’aggressività che non hanno, i testi sono deboli, la figura femminile li maciulla. E anche quei tatuaggi da mafia russa o da educazione ucraina rivelano solo delle matrioske, delle bamboline indifese.

Poi è arrivato Riccardo Cocciante con il suo musical colossale Notre Dame de Paris, che ha spopolato in tutto il mondo, grazie anche ai testi di Panella. Un’operazione popolare.

Ho un’attrazione per il popolare. Quando Riccardo mi ha chiesto i testi io mi ero dimesso dalla canzone. L’ho tenuto in sospeso tre mesi, poi in un giorno ho scritto 18 canzoni. E ho riscoperto Hugo.

Chi è Vito Taburno, un altro pseudonimo di Pasquale Panella, come Duchesca, Vanera, Vanda Di Paolo…?

Potrebbe essere una Madame Bovary o un Don Chisciotte. Ma è una persona reale, classe 1920, quindi ha già compiuto cent’anni: dice che ora si toglierà gli anni per restare sempre centenario. Io sono il suo depositario ed esecutore, mi ha passato tutte le sue creazioni, comprese le canzoni che

Matteo Setti canta nel nuovo disco.

Se Panella non è Taburno, come vi siete conosciuti?

Negli anni Quaranta “intratteneva la clientela” nelle balere con le sue canzoni. In Eritrea incontrò personaggi come Curzio Malaparte, Anna Maria Ortese, a Messina cantò alla Casa del Popolo con Togliatti che ballava sulla sua musica. Incontrai Vito negli anni Sessanta, io ero un ragazzetto, al Circolo dei Forestieri di Sorrento, ricordo che si passava lungo una fila di folti oleandri. Mentre cantava,i guardava la gente, le forchette, i bicchieri, l’odore, i politici, gli affari in corso, i mestatori. Così vide anche me tra la folla e il giorno dopo mi riconobbe in giro, rimanemmo amici per sempre.

Ma qual è lo stile di Taburno?

Nessuno stile, parla di cose accadute e di cose accadenti. Come la canzone Dondolan (do mi), si riferisce a uno seduto su una staccionata con i piedi penzoloni. Poi ci buttava dentro qualche frase sconveniente tipo: “Va il mio uccello nel cielo”, che rendeva molto l’idea. Quando c’è qualche problema nei testi, mi diceva, tu sostituisci le parole come meglio credi, e così diventò: Va il mio canto nel cielo, che però non è la stessa cosa.
E oggi che senso hanno quelle canzoni.

Ascoltatele e capirete.

Federico Pistone (Rockol – Corriere della Sera)

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